Shoyu

Il re dei condimenti

shoyu

Cos’è lo shoyu

Lo shoyu, meglio conosciuto come salsa di soia, è un famoso condimento giapponese ormai noto in tutto il mondo. Si ottiene dalla fermentazione dei fagioli di soia, uniti a frumento, acqua e sale. Potremmo quasi descriverlo come “il sapore del Giappone”, vista la sua onnipresenza nelle ricette tradizionali. Penso che tu, che ti avventuri in questa lettura, l’abbia già provato almeno una volta. Se così non fosse possiamo dire che il suo gusto è complesso, ma esalta e migliora praticamente ogni pietanza. Si tratta di un sapore unico, un sottofondo salato dove incontrerai sfumature di dolce, aspro e amaro, originatesi dall’incredibile armonia di aminoacidi derivati dalla fermentazione. I giapponesi considerano lo shoyu un fedele rappresentante del quinto sapore: l’umami.

Storia

La storia dello shoyu non è diversa da quella di molti altri ingredienti tradizionali giapponesi. Come al solito, nasce nell’antica Cina con il nome di jiangyou (jiang significa pasta di fagioli fermentata e you olio), diffondendosi poi in Giappone con l’espandersi del buddhismo. Tuttavia l’originale jiang cinese, non può essere definito shoyu, trattandosi di un rudimentale condimento fermentato, utile anche per preservare gli alimenti. C’erano diversi tipi jiang, derivati da alghe, verdure, carne, pesce e anche legumi e cereali. In particolare questi ultimi due ingredienti davano luogo ad un jiang chiamato “hishio”, antenato della moderna salsa di soia, che molto ricordava il miso. Si pensa infatti che sia stato il tamari ad anticipare lo shoyu, un liquido denso strettamente legato alla produzione del miso. Il tamari, che letteralmente significa “accumulo”, non era nient’altro che il liquido che si creava sulla superficie del miso durante la fermentazione. Quel liquido è incredibile! Chi ha la fortuna di autoprodursi il miso in casa, come noi, sa che sapore ha.

Ecco, i giapponesi, a una certa, vollero svincolare la produzione di quel prezioso liquido dal miso, perché non era conveniente. Produrre tanto miso per quel poco liquido che ne derivava, era costoso e poco sensato. Così arrivarono a creare lo shoyu che noi conosciamo, la cui produzione fiorì nel 1600. Già nel 1800 la produzione di salsa di soia era dominata da pochi grandi imprenditori, intorno alla città di Tokyo. Questo rese difficile la sopravvivenza delle piccole realtà tradizionali, incapaci di competere su costi e quantità e perdurare del tempo. Solo il 3% dello shoyu mondiale, oggi, è realizzato artigianalmente.

Pare che la storia d’amore fra l’Europa e la salsa di soia nacque nel 1600, grazie a due mercanti olandesi che se ne invaghirono a Nagasaki. Proprio loro ne inviarono delle botti in madrepatria, giungendo perfino nelle cucine di Luigi XIV, re di Francia. A corte si spettegolava che l’ingrediente preferito del Re Sole venisse dall’altra parte del globo, dopo aver subito una fermentazione di due anni in botti di legno.

Il Giappone e le sue cinque salse di soia

La salsa di soia più conosciuta in Europa e nel mondo, alla quale ci si riferisce quando si parla di shoyu è la koikuchi. Il ministero dell’agricoltura giapponese (MAFF) però riconosce ben cinque tipologie ufficiali: scopriamo assieme quali sono, tra analogie e differenze. È anche importante ricordare che in Giappone ogni salsa di soia possiede una propria regione d’origine, nonché area di maggior utilizzo.

NOME COMPOSIZIONE SALE* FERMENTAZIONE UTILIZZO
Shiro Shoyu 80% frumento
20% soia
18% 3-6 mesi Zuppe, dashi, insalatini, col pesce
Usukuchi Shoyu 50% frumento
50% soia (completato con amazake)
19% 1 anno Riso e noodles saltati, brodi, carne e pesce (è un poco più salata della koikuchi)
Koikuchi Shoyu 80% soia
20% frumento
17% 18 mesi Vedi paragrafo dedicato
Saishikomi Shoyu (doppia fermentazione) 25%soia
25% frumento
50% shoyu già fermentato
14% 18 mesi sushi, sashimi, a crudo, salse
Tamari Shoyu 100% soia 17% 18 mesi Sushi, sashimi,a crudo, stufati

*% approssimativa

A queste salse di soia si aggiungono ulteriori, saporite, combinazioni. Ne sono un esempio la salsa Tsuyu (salsa di soia e mirin), la salsa Tare (salsa di soia, zucchero, spezie), la salsa Ponzu (salsa di soia, aceto, dashi, succo di agrumi).

Proprietà nutrizionali e terapeutiche

Visto che lo shoyu, come il miso, è un ingrediente derivato dalla soia fermentata, condivide con lui molte delle proprietà nutritive e terapeutiche. Si sostiene che aiuti nella digestione di verdure e cereali, pur essendo ricco in minerali. Negli ultimi decenni gli scienziati hanno concentrato l’attenzione sull’alta concentrazione di pigmenti scuri, presenti nello shoyu, per le loro proprietà antiossidanti e antitumorali. Recenti studi dell’Università di Singapore confermano che la salsa di soia ha proprietà antiossidanti, dieci volte più potenti di quelle presenti nel vino rosso e centocinquanta volte più efficaci della vitamina C. Tuttavia si mette in guardia chi soffre di pressione alta, visto l’alto contenuto di sodio presente, nonostante si sottolinei contemporaneamente che può “rallentare la velocità di malattie cardiovascolari e degenerative”. Vedi gli studi sottostanti.

Studi e pubblicazioni

Come utilizzarlo in cucina

Veniamo finalmente alla cucina. Lo shoyu, grazie al suo intrigante sapore, sta bene davvero su (quasi) tutto. Ne bastano poche gocce per trasformare un piatto tristarello, in qualcosa di degno. Grazie alla presenza di acido glutammico, naturale parente del glutammato monosodico, esalta e intenerisce ogni bene, risultando perfetto in marinature, salamoie, salse, cibi saltati, oltre che come condimento.

Ti consigliamo di aggiungere lo shoyu al termine della cottura. Non stracuocerlo gli permette di armonizzarsi meglio con gli altri ingredienti. Nelle lunghe cotture le note leggermente dolciastre e la sapidità della salsa di soia diminuiscono; noi prediligiamo il tamari in questi casi.

Una pratica soluzione consiste nel tenere lo shoyu, oltre che in una bottiglietta, anche in uno spruzzino. Ideale per dare un leggero colpetto di umami a riso saltato, noodles o semplici verdure al vapore, a cottura ultimata.
Ovviamente lo shoyu può essere utilizzato come sostituto del sale in molte pietanze, anche occidentali, se il suo sapore ti intriga.

Come si fa lo shoyu?

Premettiamo che sono pochissime le realtà, in Giappone, che ancora realizzano lo shoyu con il procedimento tradizionale. La storia di questo ingrediente inizia in inverno, con l’ultimo raccolto di grano, che viene tostato e spezzato, e poi unito alla soia precedentemente cotta a vapore. Questi due elementi vengono inoculati con le spore del fungo Aspergillus Oryzae, divenendo nel giro di settantadue ore koji. Ricordiamo che il koji è alla base di molte prelibatezze giapponesi: miso, amasake, sake, shio-koji, mirin, per citarne alcuni.

A questo punto la miscela viene unita a una soluzione di acqua e sale, dando vita al moromi, che fermenterà, per circa venti mesi, in botti di legno di cedro. Non immaginarti però le nostre botti da vino, poiché assomigliano più a dei catini, che rimangono aperti e vengono occasionalmente mescolati per assecondare la fermentazione. Qui succede il finimondo, invisibile all’occhio umano, un tripudio di enzimi e batteri fanno un lavoro lento e sopraffino.

E così, due estati dopo, il moromi è maturo e si procede a pressarlo, estraendone un liquido scuro, che è un misto di shoyu e olio di soia greggio. Viene fatto riposare per circa un mese e l’olio, che affiora in superficie, eliminato. La salsa di soia viene poi pastorizzata a basse temperature e imbottigliata. Indicativamente il processo complessivo dura ventiquattro mesi e gli artigiani dello shoyu sostengono che il segreto sia avere delle botti di legno vecchie di sei-otto anni.

Se il 3% della salsa di soia è realizzata tradizionalmente, come è realizzato il restante 97%? Malissimo. Male. Non male. Tutti vogliono produrla più velocemente e questo porta all’utilizzo di vari trucchetti poco ortodossi, ma perfettamente legali. Li riassumiamo brevemente:

  • Utilizzo di estratto di soya, alcool etilico, zucchero, sale, coloranti (spesso caramello) e conservanti. Queste “salse di soia” non sono nemmeno fermentate e sono il prodotto di un giorno di lavoro, altro che due estati.

  • Utilizzo di soia sgrassata con esano, che nelle etichette compare come soia destrutturata. Il solvente permette di scindere velocemente le proteine dai grassi. Le proteine verranno utilizzate per la salsa di soia e l’olio verrà venduto a parte. Fagiolo sfruttato fino all’osso, ma i naturali processi enzimatici?
    Per non parlare del fatto che l’esano è un solvente tossico che, nonostante il risciacquo potrebbe permanere, anche se in basse percentuali, nel prodotto finito.

  • Metodi accelerati grazie a strumentazioni tecnologiche, temperatura controllata e conservanti. Si ottiene lo shoyu in tre-sei mesi, ma la qualità?

  • Con strumentazioni tecnologiche ma mantenendo il procedimento originale e rispettando la lunga e naturale fermentazione. Qui ricade la nostra scelta, che approfondiamo alla paragrafo “Quale shoyu acquistare?”.

Posso fare lo shoyu in casa?

Ma certo che puoi fare lo shoyu in casa gioia! A seconda del tuo livello di esperienza con le fermentazioni e dalla strumentazione che hai a disposizione risulterà più o meno facile.
Il consiglio che possiamo darti è quello di fare un po’ di pratica col koji e poi passare alla salsa di soia. Puoi provare a seguire un qualsiasi tutorial su youtube in inglese, in italiano attualmente il materiale a disposizione è piuttosto mediocre.
Per acquistare l’Aspergillus Oryzae ti consigliamo il sito Fermentation Culture: spore sveglie, persone gentili e professionali, spedizioni veloci, prezzi onesti.

Le differenze tra shoyu e tamari

Come abbiamo già accennato sopra, parlando della storia del miso, all’origine dello shoyu c’era un primitivo tamari: il liquido scuro che si accumulava sopra al miso in fermentazione. Questo antenato prendeva il nome di go-bu tamari, era a base di sola soia, dalla consistenza densa e dal prezzo inaccessibile. Il procedimento è stato tramandato da maestri, di generazione in generazione, evolvendosi lentamente in passaggi che assomigliano a quelli utilizzati per lo shoyu, ma con l’utilizzo di sola soia. Oggi i passaggi (tradizionali) per produrre shoyu e tamari sono simili, ma non identici. Ottimo per chi cerca una salsa di soia priva di glutine, per cotture più lunghe, come sostituito dello shoyu, il tamari dovrebbe avere una consistenza leggermente più densa e un sapore più salato e penetrante, dovuto al fatto che non c’è grano e relativa fermentazione alcolica. Il tamari è giustificatamente considerato una versione posh dello shoyu.

Le differenze tra shoyu e salsa di soia scura (Dark soy sauce)

Il nome salsa di soia scura potrebbe creare confusione perché la salsa di soia è per sua natura scura. In realtà ciò che si intende per Dark soy sauce è una classica salsa di soia con l’aggiunta di zucchero e/o melassa, che la rende densa, appiccicosa e più scura. È maggiormente diffusa in Cina, nel sud-est asiatico e in Indonesia, dove prende il nome di kekap manis. La dark soy sauce viene spesso utilizzata in cucina, nei brasati di carne, per ottenere quell’effetto lucido e laccato; oppure in noodles e risi saltati che prendono un colore ambrato (vedi il classico nasi goreng). Il nostro consiglio è quello di autoprodursi questa salsa di soia in casa a partire da un ottimo shoyu, unito a zucchero di canna grezzo o melassa. Al momento, In Italia, non esistono produttori o importatori di Dark soy sauce di qualità elevata e/o biologica. In commercio ne abbiamo trovate pochissime, contenenti zucchero raffinato, additivi e conservanti.

Quale acquistare

Prima di acquistare una salsa di soia leggi bene l’etichetta, che dovrebbe riportare solo quattro semplici ingredienti: soia, frumento, acqua e sale. Stop. Se le diciture sono altre non è una buona scelta.
Personalmente consigliamo di scegliere prodotti con certificazione biologica, che garantisce un procedimento rigoroso e solleva dall’annosa questione della soia OGM. Se sei indeciso possiamo consigliarti i seguenti prodotti, di cui abbiamo personalmente testato la validità. Questi tre brand sono tutti davvero ottimi.

Degni di nota sono anche gli shoyu, prodotti a partire da legumi e cereali locali, di Carlo Nesler. Trovate maggiori informazioni sul sito Nesler.it.

Come conservarlo?

Lo shoyu può essere tranquillamente conservato fuori frigo, soprattutto se lo si consuma nel giro di due mesi. Se ne fai un consumo occasionale meglio refrigerarlo, affinché non perda sapore e aroma.
Personalmente non abbiamo mai conservato la salsa di soia in frigo. Normalmente teniamo la bottiglia grande in uno scaffale asciutto e buio e travasiamo una piccola quantità in una bottiglietta di vetro e in un flaconcino spray, per ottenere l’effetto laccato al bisogno. Non abbiamo mai riscontrato nessun tipo di problema, ma facciamo un uso della salsa di soia praticamente quotidiano.

2024-06-28T08:35:21+01:00Categorie: Ingredienti|
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